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  • Dott.ssa Elena Paganin, Educatrice Professionale.

Vivere una vita sospesa

È così che ci immaginavamo di vivere dopo l’emergenza COVID-19? La quale ha stravolto la quotidianità della maggior parte della popolazione, ha obbligato le persone a cambiare le proprie abitudini. Sono passati più di due mesi da quando l’Italia è uscita dal periodo di lockdown. I servizi e le scuole sono stati riaperti e la vita sembra abbia ripreso ad essere vissuta. Ma si può dire di essere ritornati a vivere come prima? A me sembra più di vivere come una farfalla in gabbia. La libertà che ci è concessa per vivere è parziale. È un periodo storico particolarmente critico ed esasperante per la nostra vita sociale ed emotiva.



Non si può parlare di normalità se siamo obbligati a tenere una mascherina per metà della nostra giornata; non si può parlare di normalità se due bambini di due gruppi diversi non possono giocare nello stesso piazzale. Sono molti i divieti e le limitazioni che dobbiamo rispettare, tutto ciò non può che andare a creare un clima d’ansia, stress e frustrazione.


Molto spesso i bambini non riescono a far fronte facilmente al periodo di stress che stanno vivendo.


Se il virus ha stravolto ogni nostra quotidianità, portando cambiamenti piccoli e grandi, mi sembra doveroso da parte nostra adesso cercare di cambiare mentalità. Abbiamo la fortuna, noi esseri umani, di essere dotati di una grande capacità di adattamento, e quindi di riuscire in molte occasioni a fare di necessità virtù.


Negli anni ’70 quando la Democrazia cristiana necessitava di una fase di rinnovamento, Mino Martinazzoli in un suo intervento disse che c’era bisogno di un nuovo “ricominciamento”: un termine che suona male ma rende bene l’idea.


Ri­-cominciare è diverso da ripartire, che significa semplicemente riprendere il cammino da dove ci si era fermati.


Per un ricominciamento, invece, servono istituzioni autorevoli, coese e ben funzionanti, in grado di trasmettere quel senso di appartenenza e di protezione di cui le persone hanno bisogno.


Si badi bene, io credo che i bambini abbiano spesso una resilienza ai traumi migliore di noi adulti, più spontanea.


I bambini non hanno bisogno del “to cure” ma dell’“I care” donmilaniano.

Non curarli ma prendersi cura di loro, sviluppando i loro tanti antidoti resilienti;

ri-offrendo loro ottimismo e volontà con un approccio realistico agli eventi del coronavirus, per rielaborare cosa è successo, senza nasconderlo come fosse una zanzara che basta mandar via, ognuno a modo suo secondo l’età.


TIRARE FUORI CIO’ CHE STA DENTRO (educare)


Quello che bisognerebbe considerare implicitamente è che ci siano le risorse necessarie per acquisire una nuova informazione. Ciò esprime la possibilità di affrontare probabili mutamenti senza incorrere necessariamente in un “trauma”.


È normale che qualche bambino abbia avuto una regressione sul proprio sviluppo. Possiamo accorgercene da piccole regressioni come il ritorno all’uso del ciuccio; disturbi del sonno; l’aumento di irritabilità; disturbi alimentari; (ecc.). Insomma, si cerca di tornare tre passi indietro, in quel posto che conosciamo bene, in cui ci sentiamo forti e sicuri che ci da quella sensazione di protezione.


A proposito di queste forme di regressione, i genitori hanno potuto notare nei propri figli comportamenti più infantili negli ultimi mesi ma non c’è nulla di cui preoccuparsi. È normale che bambini e ragazzi a cui viene chiesto di fronteggiare una situazione difficile, si adattino al contesto in modo fisiologico, riducendo quelle abilità già acquisite come meccanismo di compensazione. È compito del genitore accettare queste regressioni per uno sviluppo sereno del proprio figlio.


In questi mesi di lockdown, di chiusura forzata in casa, sono i più piccoli ad averne risentito di più. I bambini assorbono come delle spugne ogni emozione presente in casa, si rendono conto dell’atmosfera che c’è e sentono tutti i discorsi che fanno i più grandi.


Se dentro di loro rimane una situazione irrisolta, qualcosa che non hanno compreso del tutto, rimane l’ignoto e l’ignoto anche ai più grandi fa paura. Solo che i più piccoli, grazie alla loro immensa fantasia, iniziano a rappresentare queste paure con i mostri. Manifesteranno così molte delle loro paure. (l’uomo nero; la strega cattiva; il lupo; ecc.)


“RIELABORARE CIO CHE È STATO PER ANDARE INCONTRO A CIO’ CHE CI ASPETTA”


Nell’articolo dello psicoterapeuta infantile Alberto Pellai: “Caterina e l’orsacchiotto”. Egli racconta di sua figlia Caterina undicenne, in una giornata di pioggia e per questo obbligata a stare in casa, che richiede ai genitori un suo vecchio peluche d’infanzia.


Il padre pensò subito ad un segno di regressione, nel momento in cui la vide giocare insieme all’orsacchiotto. Ma subito dopo qualche minuto di osservazione, si accorse che la dinamica del gioco non è quella che si aspettava.


Caterina “aveva convertito i suoi bisogni di attaccamento in un’offerta di accudimento verso il suo orso”. Lo psicoterapeuta inizia così ad ipotizzare il perché di questo cambio di ruoli, arrivando alla conclusione che quel gioco per lei era il modo di metabolizzare tutti quei mesi di isolamento in cui era lei quella accudita, in balia degli eventi, senza più nessuna certezza.


Così in quella giornata uggiosa, rinchiusa in casa, lei “ha riversato all’esterno tutto quello che aveva ricevuto, trasformandolo in un sostegno al suo orso”. Si è così identificata in un genitore che in un giorno di “lockdown meteorologico” si prende cura del suo cucciolo.


IL VALORE DEL GIOCO PER I BAMBINI È IMMENSO


L’esperienza del gioco insegna al bambino ad essere perseverante e ad avere fiducia nelle proprie capacità, è un processo mediante il quale diventa consapevole del proprio mondo interiore di quello esteriore, incominciando ad accettare le legittime esigenze di queste due sue realtà.


Permette loro di rielaborare i passaggi della vita in cui il loro equilibrio emotivo ha vacillato. Non rielaborare le esperienze, ci lascia in balia degli eventi, bloccandoci nel “qui ed ora” incapaci di proiettarci nel futuro, perché invischiati nel ricordo.


Siamo noi adulti, genitori, educatori i primi filtri che i bambini hanno per comprendere la realtà e il mondo esterno, ed è compito nostro cercare di calibrare le informazioni che diamo ai bambini, scegliendo quelle che sappiamo possono comprendere ed elaborare. Offrendo anche un tempo e un luogo protetto nel quale i bambini siano liberi di esprimere se stessi.


CHE COS’È ALLORA LA PAURA?


Umberto Galimberti, nel Dizionario di Psicologia, la definisce:


Emozione primaria di difesa, provocata da una situazione di pericolo che può essere reale, anticipata dalla previsione, evocata dal ricordo o prodotta dalla fantasia. La paura è spesso accompagnata da una reazione organica, di cui è responsabile il sistema nervoso autonomo, che prepara l’organismo alla situazione d’emergenza, disponendolo, anche se in modo non specifico, all’apprestamento delle difese che si traducono solitamente in atteggiamenti di lotta e fuga”.


Anche noi adulti siamo soggetti alla paura, anche noi come i bambini abbiamo paura dell’ignoto, di ciò che non sappiamo, basta vedere come abbiamo vissuto e stiamo vivendo questo 2020. Stiamo combattendo contro un nemico invisibile.

La divulgazione di informazioni talora contrastanti da parte dei mass media, hanno alimentato questo clima di stress. È nostro compito ricercare le fonti attendibili e prendere da loro le informazioni.


La società moderna è fagocitata dalle fake news, che hanno creato un’atmosfera di scompiglio e terrore.

È anche vero che noi adulti a differenza dei bambini, dobbiamo accettare di non poter sapere sempre tutto. È quello che Socrate ha professato per secoli, nel momento in cui sappiamo di non sapere, accettiamo l’ignoranza. Ciò è la presa di consapevolezza di un nostro limite, nessuno possiede una verità assoluta.


Forse dovremmo cercare di distaccarci dal termine normalità. Tutti noi vorremo che la nostra vita riparta da quel fatidico giorno in cui tutto si è fermato. Abbiamo nostalgia dei vecchi tempi, della libertà di abbracciare, di ballare, anche semplicemente di fare una passeggiata senza una mascherina che ci impedisce di respirare. Non ci è concesso di ritornare a rivivere come prima, almeno per il momento.


Con la ripresa dei servizi e delle nuove normative, si è creato un nuovo contesto, diverso da quello di prima. Se accettiamo il nuovo contesto come parte del nostro futuro, inizieremo a vedere nuove opportunità e nuovi punti di vista.

Il nuovo contesto ci porterà ad una trasformazione, non ad un cambiamento. Nel cambiamento muta il contesto, nella trasformazione cambiamo noi. La trasformazione è strutturale, non possiamo tornare indietro. Solo capendo che siamo in un contesto nuovo possiamo parlare di un “ri-cominciamento”.


Questa vita sospesa ci sta insegnando quanto sia preziosa la normalità.




BIBLIOGRAFIA


Umberto Galimberti, Dizionario di psicologia, UTET, 2006.



SITOGRAFIA




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