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E se li lasciassimo un po’ in pace? I dubbi di un’educatrice in questi giorni

NOTA: Questo articolo è tratto dalla rivista "Animazione Sociale". Questo contenuto non è per tanto prodotto da "Il Gomitolo e l'Albero".



Due settimane fa, quando il Servizio Minori e Famiglia in cui lavoro ha sospeso le Adm, ho provato un enorme senso di impotenza e frustrazione. La domanda era sempre la stessa: “Come posso stare vicino stando così lontana, come si fa a mantenere una relazione, che abitualmente è quotidiana, a distanza?”. I legami si affievoliscono, si diradano, non posso osservare, non posso intervenire, non posso “tenere sotto controllo”. Ho lasciato viaggiare la mia fantasia superando resistenze e vergogna; ho fatto video per i bambini in cui leggevo loro una storia sul coronavirus, ho cercato link da mandare ai genitori in cui scovare le più svariate attività da fare in queste lunghe giornate di noia, ho inoltrato foto, vocali, ho fatto così tante videochiamate che il telefono era costantemente in carica, ho disegnato parecchi arcobaleni e ne ho ricevuti altrettanti.

“Devo dimostrargli che ci sono, che non li ho abbandonati, che possono ugualmente contare su di me!”. Era questo l’obiettivo che mi davo: non smettere di fare, di prestare attenzione, di ascoltare le mie percezioni dietro un whatsapp con un emoticon triste o sorridente e da lì partire per costruire un intervento educativo mirato. Un sacco di tempo a progettare, a pensare, a confrontarmi con i colleghi che, come me, si trovano spiazzati davanti a una situazione sconosciuta che rimette in gioco tutti i punti fermi del nostro lavoro. Sostenere, condurre, indirizzare, prendersi cura, aiutare e a volte anche sostituire.

È davvero complesso ascoltare una mamma stanca, una nonna arrabbiata o un papà triste che in videochiamata scoppia a piangere alla vista dei loro bambini che non abbraccia da settimane. Sentire il peso di dover gestire la situazione, di legittimare tanta sofferenza a un adulto, ma allo stesso tempo di proteggere e preservare un bambino da un’emozione così dirompente. Il tutto senza poterli guardare, se non attraverso una connessione ballerina, senza entrare nei loro sguardi o senza cogliere i movimenti del loro corpo, senza essere lì insomma. Cerco di tirare fuori tutta la mia empatia e, a fine giornata, mi sento svuotata. Le telefonate diventano troppe, senza orario, senza misura, mi sento appesantita, ma lo devo fare, lo faccio per cercare di rispondere al loro bisogno… O al mio?! Questa domanda inizia a farsi sempre più spazio e mi costringe a fermarmi e a fare dei pensieri che vadano nella direzione, non tanto di trovare una risposta, quanto di capirne l’origine. L’origine stessa in cui, per natura, ogni vuoto va riempito, perché non sappiamo stare nel niente, nella noia e nell’incertezza. Da qui parte la messa in discussione del mio nuovo ruolo.

E se li lasciassi un po’ stare? E se provassi a dare loro un po’ di fiducia, se li lasciassi generare liberi dalla sensazione di dover, a fine giornata, rendicontare all’educatrice come hanno trascorso il tempo con i loro figli? In fin dei conti il lavoro dell’educatore è quello di accompagnare le persone verso l’autonomia, mostrando loro degli strumenti che riescano a utilizzare nell’attimo opportuno, che si arrivi al momento in cui camminano da soli, senza più avere bisogno di noi, perché se così non fosse non avremmo costruito qualcosa di solido che può perdurare nel tempo, non avremmo permesso loro di imparare nulla se non a creare una relazione di dipendenza da noi. È chiaro che con questo non intendo abbandonarli al loro destino, né sentirmi esonerata dalla responsabilità di star loro vicino. Significa però immettere un cambiamento nello sguardo, nell’oggetto di lavoro, nell’intenzionalità della nostra azione educativa. Esserci non vuol dire controllare, stare non significa assillare. Un po’ come quando un bambino inizia a camminare: lo sorreggiamo con entrambe le mani, poi con una lasciamo la presa e infine molliamo anche l’altra. Loro traballano, si muovono goffamente e spesso perdono l’equilibrio. Ci guardano con gli occhi pieni di lacrime e allungano le braccia verso di noi per essere presi in braccio. E lo facciamo certo, li consoliamo e li incoraggiamo a riprovarci perché l’obiettivo è che riescano a stare in piedi da soli; possiamo consigliare loro di appoggiarsi al divano, li mettiamo vicino a una sedia o su un tappeto morbido perché possano reggersi e non farsi troppo male quando cadranno. Perché sì, cadranno, è il naturale e fisiologico percorso di apprendimento. Ed è proprio questo che intendo: per loro sarà dura, lo è per tutti noi, lo è per ogni genitore che deve fare smart working, lo è per un anziano solo, lo è per un adolescente, lo è per un bambino, lo è per noi operatori. Lo è per intere famiglie.

Provo quindi ad andare oltre il classico agito di supporto immediato che si attiva davanti a ciò che riconosciamo come emergenza e mi domando se questa situazione non ci stia dando l’opportunità di mettere noi stessi al centro della trasformazione. Se una delle chiavi non sia quella di riempire ma di provare un po’ a svuotare. Forse oggi non è tempo di dare, ma è il tempo di prendere, di raccogliere, di commettere errori, di dire “non vi preoccupate, potete scivolare” e nel frattempo mostrare la nostra mano tesa, il nostro sguardo accogliente e non giudicante, è tempo di far sentire la nostra voce che incoraggia senza riempirli di cose da fare, perché la verità è che neanche noi sappiamo esattamente cosa fare, perché anche noi stiamo imparando a sbagliare a trasformarci e ci sentiamo, ora più che mai, vulnerabili. Questo è, se possibile, ancora più complesso, perché il non controllo del presente ci mette inevitabilmente davanti al dover far i conti con la riformulazione di un futuro che appare pericolosamente incerto. Quando tutto questo sarà finito torneremo nelle loro case e se con alcuni potremo constatare che la distanza non ha fratturato alcun legame, con altri invece dovremo ricominciare da capo a intrecciare le relazioni, a raccogliere i cocci dell’isolamento forzato, di cosa ha scaturito e di dove ci ha portati. Avremo a che fare con adolescenti che per mesi si sono chiusi nelle loro stanze avendo come unici interlocutori il computer e nel migliore dei casi libri e musica. Dovremo interfacciarci con genitori che potrebbero dirci “ce l’ho fatta fino adesso senza di te, posso farcela ancora”. Forse sarà necessario fare i conti con dei lutti e delle mancanze, con il rumore che è diventato silenzio e che, seppur con lentezza, tornerà a farsi rumore, più intenso di prima.

Sarà allora il tempo del re-inventarsi, del ri-costruire e ripartire, consapevoli che davanti a noi potrebbero non esserci le stesse persone che abbiamo incontrato per l’ultima volta mesi fa. Usiamo questo tempo per fargli sperimentare e per sperimentare noi stessi un tipo di educazione insolita, manteniamo un filo ma permettiamoci anche di allentare la presa, perché fare il nostro lavoro da vicino è una competenza con cui abbiamo confidenza, ma farlo da lontano, lasciarli andare per poi essere capaci di accoglierli nuovamente accettando la loro trasformazione, ci spaventa un po’ di più. Lasciamoli disegnare su una nuova tela, permettiamo loro di scoprire le risorse che hanno e lasciamoci stupire alla vista di un dipinto che ha cambiato forma e colore, che ci condurrà a una rinascita in un progetto che diventa una scommessa per noi stessi e per le persone che, con le loro fragilità, ci permettono di rendere il lavoro educativo una nuova, costante, scoperta. Con l’intenzione che questo mio piccolo contributo, un po’ provocatorio, possa diventare una occasione di scambio con chiunque si senta parte di un progetto educativo, non mi resta che augurarci un buon “nuovo” lavoro cari colleghi, che siate educatori, psicologi, assistenti sociali, insegnanti o “semplicemente” genitori. Nella disperata speranza che ci accomuna che “andrà tutto bene” vi stringo in un lontano, ma caloroso abbraccio.

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